Il continuo sviluppo dell’informatica rende sempre più necessaria una costante attività del legislatore volta ad adeguare la normativa alle innovazioni tecnologiche.
In alcuni casi, tuttavia, quest’attività può portare ad una normativa frastagliata la cui interpretazione può apparire complessa: in tali casi, sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione a porre rimedio alle discordanze giurisprudenziali ed a fornire un’interpretazione completa del quadro normativo che dovrà, successivamente, essere seguita dai vari giudici.
Un esempio lampante della funzione svolta dalla Suprema Corte è offerto dalla sentenza (n. 31022/2015) che andrò ad analizzare e che mira a risolvere due importanti questioni di diritto molto dibattute negli ultimi tempi.
La prima è più generale e riguarda la possibilità di sottoporre un sito web o una “risorsa telematica” in generale a sequestro preventivo ai sensi dell’articolo 321 del codice di procedura penale (e senza ampliarne indebitamente i confini).
Il secondo quesito, più specifico, concerne l’ipotesi dell’ammissibilità di un sequestro preventivo di una testata giornalistica regolarmente registrata on line con riferimento ai maggiori limiti che sono imposti costituzionalmente a questo istituto a tutela della stampa in generale.
Analizziamo separatamente le due questioni.
Il sequestro preventivo
Ai sensi dell’art. 321 c.p.p. (“1. Quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato. Prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari 2. Il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca, il sequestro preventivo è una misura cautelare che può essere disposta in due ipotesi: o per evitare che la disponibilità di una cosa pertinente al reato possa far persistere o aggravare le conseguenze dello stesso, oppure per evitare che ciò possa agevolare la commissione di altri reati”)
Le Sezioni Unite, per stabilire se quest’istituto possa essere applicato ad un sito web, devono prima chiarire due importanti temi.
Il primo sta nella necessità di ricondurre la nozione di sito web, che rappresenta qualcosa di intangibile e immateriale, nel concetto di “cosa”: a questo quesito la Corte risponde in modo affermativo, richiamando, a fondamento delle proprie ragioni, la normativa di Budapest sul “cybercrime” (Convenzione Consiglio d’Europa 32 novembre 2001), nella quale viene esplicitamente equiparato un dato informatico al concetto di “cosa pertinente al reato” prevista dall’articolo 321 c.p.p.
La questione più delicata, tuttavia, riguarda la possibilità di estendere a un sito web i confini del sequestro preventivo. Questo, infatti, nel codice di procedura penale è ricompreso tra le misure cautelari “reali”, ovvero misure che determinano l’indisponibilità del bene per non pregiudicare una possibile sentenza di condanna, senza, tuttavia, imporre alcun “facere” all’imputato o a terzi (in questo caso al gestore del sito web che dovrebbe bloccare la pagina).
L’imporre un “facere” dovrebbe, infatti, essere caratteristica tipica dell’altro ramo delle misure cautelari, quelle “obbligatorie”, e sarebbe inconciliabile con il sequestro preventivo. Tuttavia, le Sezioni Unite chiariscono che questo sia comunque possibile, in quanto la norma del codice di procedura penale in questione va necessariamente integrata con quanto disposto dal Dlgs. 70/2003.
Il decreto, riguardante “aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione” (scrivere che attua normativa ce) prevede (agli articoli 14 comma 3, 15 comma 3 e 16 comma 3), tra l’altro, che l’autorità giudiziaria o amministrativa, in via d’urgenza, possa richiedere direttamente al prestatore del servizio (in questo caso il provider) di porre fine alle violazioni commesse sul proprio sito (dunque un “facere”).
In ogni caso, ai fini dell’applicazione della misura cautelare, il giudice deve valutare la persistenza dei requisiti del “fumus boni iuris” (le risultanze processuali devono essere tali da indirizzare verso una possibile condanna in via definitiva) e del “periculum in mora” (alta probabilità di danno concreto ed attuale) e, a seconda della gravità della situazione, adottare la misura più idonea (che può consistere anche nella sola rimozione od oscuramento del commento diffamatorio e non necessariamente nel blocco del sito).
La testata giornalistica on line
Il secondo importante tema che viene affrontato dalla Suprema Corte è rappresentato dall’applicabilità della norma analizzata ad una testata giornalistica telematica.
Com’è noto, l’articolo 21 della Costituzione, al terzo comma (“Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.”), offre una tutela rafforzata, limitando i sequestri per i delitti commessi tramite la stampa ai soli casi stabiliti dalla legge (stampati osceni, offensivi della pubblica decenza o divulganti mezzi atti a procurare l’aborto ex art. 2, R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 561; violazione della normativa a tutela del diritto d’autore ex art. 161, L. 22 aprile 1941, n. 633; violazione della normativa concernente gli obblighi di registrazione della testata e l’individuazione dei responsabili ex artt. 3 e 16, L. n. 47 del 1948; stampati recanti apologia del fascismo ex art. 8, L. 20 giugno 1952, n. 645).
Il punto critico della questione sta nello stabilire se è possibile assimilare una testata giornalistica tradizionale (come concepita dallo stringente testo della legge sulla stampa che, essendo stata emessa nel 1948, non la prevedeva) ad una telematica. In caso di risposta affermativa, sicuramente tutte le maggiori tutele riservate al mondo della stampa dovranno essere estese anche alla pagina web “giornalistica”.
Le Sezioni Unite, dopo un lungo excursus storico-normativo, arrivano a dare una risposta affermativa in tal senso facendo leva sullo stesso testo dell’articolo 21 della Costituzione e su successive norme integrative della legge sulla stampa.
La Corte fa inizialmente leva sulla locuzione “ogni altro mezzo di diffusione” per manifestare il proprio pensiero utilizzata al primo comma dell’art. 21 della Costituzione, che dovrebbe, dunque, essere utilizzato come canone generale per far fronte ai nuovi sviluppi tecnologici.
Tuttavia, nelle successive argomentazioni la Corte si sofferma sui requisiti che devono avere le pagine web per poter essere assimilate ad una tradizionale testata giornalistica (con le maggiori tutele dette).
Ne consegue che non ogni pagina web o blog può essere definita come testata giornalistica telematica, ma saranno considerate tali solamente quelle che sono realmente strutturate come un giornale o un periodico tradizionale: è necessario, quindi, che abbiano una propria organizzazione tradizionale ed un proprio direttore (e con obbligo di registrazione presso il tribunale esteso alla stampa tramite web dalla legge n. 72/2001).
Necessario è anche il fine ultimo delle pubblicazioni inserite nella pagina web: la produzione deve essere destinata alla pubblicazione, parametro che, a detta della Cassazione, viene rispettato in quanto il web è accessibile ad una serie indefinita di soggetti che possono leggere facilmente i contenuti tramite i propri supporti informatici.
Solamente quando vengono rispettati tutti i requisiti appena indicati saranno applicate le maggiori tutele concesse dalla legge sulla stampa e, salvo i casi previsti dalla legge, non potranno essere posti in essere interventi repressivi da parte delle autorità (non sarà, ad esempio, possibile il sequestro preventivo di una pagina web che ospiti un articolo dal contenuto diffamatorio).
Dott. Luigi Dinella